ATTRAVERSO L'OPERA
di Miklos N. Varga
Abstract
In questo capitolo
ATTRAVERSO L'OPERA
Capire un'opera d'arte non significa applicare un metodo in "codice di lettura", nonostante tutti gli sforzi interpretativi predicati o precettati dai teorici dell'arte moderna: perché l'arte, in quanto "prodotto" del pensiero creativo, non potrà mai essere altro che l'espressione di se stessa, dotata di proprietà sensibili e di significati indimostrabili alla verifica scientifica dei contenuti. Al riguardo, Edgar Wind è alquanto esplicito: "L'opera d'arte, non meno della verità, impone un genuino e totale oblio di se stessi: atteggiamento che molte persone respingono, mentre ad altre non costa alcuna fatica" (Arte e anarchia, Adelphi, 1968, p. 130).
Certamente, la volontà di capire l'arte rientra
nella più complessa sfera della comprensibilità
del mondo
in cui viviamo e intorno al quale, se non proprio "attraverso",
possiamo soltanto formulare ipotesi, magari accettando il compromesso
dialettico contenuto nella triade hegeliana: tesi-antitesi-sintesi.
Però, se è vero che l'estetica fornisce gli
strumenti
concettuali di rilevamento problematico (dei problemi dell'arte) niente
perviene alla dimostrazione di quello che potremmo definire il "sapere
occulto" dell'arte. Di contro, essendo l'opera d'arte il prodotto
(oltreché un "oggetto simbolico") di una sintesi fra il
pensiero
creativo, immaginante, e la tecnica di attuazione creativa,
è
anche comprensibile l'atteggiamento mentale di chi, basandosi
sull'esperienza conoscitiva, rivendica il "voler capire" nell'ambito
del "saper vedere".
Già all'inizio della nostra era "d.C." (dopo Cristo), Teodoro di Gadara avvertiva che "differisce la scienza (episteme) dall'arte (techne) in quanto quella è fatta di principi infallibili, che hanno una natura fissa; l'arte invece è di principi mobili, che assumono or questa or quella natura..." (Del Sublime, I.E.I., p. XV). Ed è innegabile, tuttora, la distinzione fra episteme e techne proprio perché all'approccio cambiano i parametri mentali, per cui la "lettura" che ne consegue riflette la disponibilità dialogica del riguardante.
Del resto, basterebbe scegliere un ristretto
"campionario" di opere d'arte ormai storicizzate nel tempo: La Tempesta
di Giorgione, La flagellazione di Cristo di Piero della Francesca, La
Gioconda di Leonardo da Vinci, La Battaglia di San Romano di Paolo
Uccello, La volta della Cappella Sistina di Michelangelo, La Scuola di
Atene di Raffaello, L'Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano. Esempi
rinascimentali, apparentemente accessibili all'interpretazione comune;
eppure, se analizziamo oggi queste opere senza penetrarne lo spirito e
il pensiero epocali possiamo apprezzare le immagini, la tecnica
artistica, non certamente la "dimostrazione", per l'inadeguatezza di
stabilire metodi o criteri di interpretazione veramente "oggettivi".
Dipende da noi stessi operare un "attraversamento" sensibile:
perché l'opera d'arte occulta e rivela nel contempo
ciò
che è, lasciando indicibile ciò che non
è...
espressione "implicita" nella rappresentazione.
L'occhio "informa" la mente, poi succede qualcosa "dentro". L'analisi di Konrad Fiedler, peraltro, denuncia più chiaramente le nostre distonie percettive: "L'uomo di solito si pone di fronte alle opere d'arte non diversamente che davanti alle cose, cioè riducendo al minimo la contemplazione e (giacché l'ha così trascurata) andando in cerca di nuovi punti di vista dai quali ciò che vede gli possa apparire interessante. Ma se questo sistema è giustificato di fronte alle cose, in quanto oggetti di molteplici interessi spirituali, esso è affatto arbitrario nei riguardi delle opere d'arte, e si può senz'altro affermare che la contemplazione comune delle opere d'arte si riduce in generale ad un guardarle fissamente senza capirne nulla" (Aforismi sull'arte, Minuziano, 1945, p. 210).
D'accordo, ma l'entità del problema
richiede un supplemento d'indagine, senza "pre-giudizi", relativamente
ai modi di sensibilizzare l'arte "attraverso" l'opera: in quanto
l'opera è un "contenitore di pensiero" autoconfigurantesi in
"contenuto di verità", indefinibile e inavvicinabile al
velleitario "voler capire" dell'interpretazione. Per Walter Benjamin:
"Le opere d'arte più antiche sono nate, come è
noto, al
servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. Ora, riveste un
significato decisivo il fatto che questo modo di esistenza, avvolto da
un'aura particolare, non possa mai staccarsi dalla sua funzione
rituale" (L'opera d'arte nell'epoca della sua
riproducibilità
tecnica, Einaudi, 1966, p. 26).
Possiamo concordare sui concetto di "aura", privilegiante
l'unicità o la rappresentatività dell'opera
d'arte come
"oggetto simbolico" o di rituale; tuttavia ciò che Benjamin
non
ha dimostrato, forse volutamente, è la messa in crisi
dell'opera
d'arte stessa, quale "immagine di pensiero" al servizio della
realtà illuminata dalla conoscenza. Di qui potremmo
concludere
che soltanto "attraverso" l'opera, ieri come oggi, siamo in grado di
esercitare la nostra pensabiità, imparando prima ad
auscultare
il respiro di questo attraversamento, attraverso noi stessi. I modi di
esistenza cambiano, come le opere d'arte, ma la realtà del
sentire è compresente nell"aura" del nostro vivere
quotidiano al
rispecchiamento della storia.
Miklos N. Varga - contributo tratto da "Dall'arte nella storia alla storia nell'arte" - Unicopli 1987 - novembre 2006 Torna in alto