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Musica

MUSICA RITUALE DEI MISTERI INIZIATICI

di Luca Bianchini

Abstract
Luca Bianchini tratta la concezione della musica nel mondo greco antico.


La musica greca antica non ha valore di arte autonoma, ha piuttosto una funzione rituale, magica e taumaturgica. I greci innalzarono nell'Iliade un inno al dio Apollo per allontanare, con l'efficace combinazione dei suoni, simboleggianti costellazioni, luna e pianeti, la pestilenza devastatrice. Orfeo e Museo, personaggi mitici, furono primi conoscitori della musica e grandi iniziati, esperti delle armonie del macrocosmo e del microcosmo, della magia e di erbe medicinali.

Fu Terpandro di Antissa (VII secolo) a sottrarre la musica greca dall'ombra di queste favole. Egli fu celebre personaggio storico e termine discriminante, considerato da molti il padre della musica greca. Gli antichi compositori nei secoli successivi s'ispirarono a lui e utilizzarono, rielaborandolo, materiale preesistente e già conosciuto. Questo modo di comporre su temi e motivi della tradizione costituì quella musica degli antichi misteri che era detta “nomica”.
La composizione antica nomica fu in genere monodica od omofona.

Le voci dei cantanti procedevano secondo gli schemi del rito collettivo, cioè parallelamente, eseguendo le stesse linee di melodia e sulle stesse parole.
Nella musica omofona i collegamenti tra un suono e l'altro, mancando i punti di riferimento delle strutture armoniche, si precisano per gradi.
L'armonia totale è apprezzabile in orizzontale e quindi solo alla fine. La comprensione del brano non è quasi immediata, come avviene nella nostra musica, dove ogni nota è sostenuta dall'armonia che prova a chiarire, già all'inizio, i rapporti tra i suoni.

Dubbio e incertezza caratterizzano invece la composizione antica che si presta a mille suggestioni simboliche e che si comprende solo nella sua totalità, cioè quando e conclusa:
Una volta iniziato il canto - dice ancora Guido d'Arezzo nel Medioevo - non sai quale sarà il suo sviluppo, ma una volta concluso ne avrai una conoscenza retrospettiva”.


Le note hanno valore sacro.

"Una nota sacrifica se stessa per lasciare spazio a quella successiva", ricorda l'etnomusicografo Marius Schneider.

Il senso delle successioni melodiche è dinamico, cosmologico secondo la disposizione degli intervalli e il rapporto tra le note.
Per questa sua caratteristica la musica antica doveva contenere determinati incisi già conosciuti, per comunicare all'ascoltatore, nel corso dei rituali, diversi piani di lettura: un significato essoterico ed altri significati esoterici, man mano che il progredire nei misteri apportava un senso interiore di pace, di sicurezza, di comunione col dio.

I musicisti antichi, che partecipavano ai misteri, pare non amassero gli imprevisti.
Secondo lo Pseudo Aristotele per loro era piacevole solo la musica che è conosciuta, perché “piacevole è ciò che si comprende”. L'ascoltatore si trova in tal caso in rapporto di similarità affettiva col cantante, perché canta con lui.

La musica greca, sempre collegata alla tradizione, era un rito collettivo nel quale l'ascoltatore realizzava l'unità, con chi suonava, cantava, danzava, colla sua comunità, ma solo se era iniziato. Il profano non ne avrebbe compreso il senso interno, perché l'esteriore l'avrebbe sopraffatto, facendogli apprezzare solo la scorza.

La musica greca non era una inutile ripetizione di incisi preesistenti; si dimostrava capace invece d'essere libera e autonoma. Nella poetica di Aristotele essa era considerata un condimento della poesia, un linguaggio che trasmette contenuti religiosi, politici, sociali, economici, perché indissolubile da parola, danza, religione, società.

La parola sacra, com'era cantata nei misteri, era per i greci un veicolo che recava di per sé contenuti pregnanti: il testo letterario si trasferiva tutto nel tema musicale, e i temi nel testo ed entrambi nei movimenti coreutici.

L'arte dei suoni che accompagnava i canti dei misteri dionisiaci o apollinei, era basata sul nomos antico, che e la radice del linguaggio musicale. Questa forma è religiosa, perché legata a una impostazione fortemente etica e molto sentita nel mondo classico.
Nei tempi remoti che hanno preceduto l'epoca omerica i momenti importanti per la vita di un popolo coincidevano spesso con i riti magici, le celebrazioni delle messi, la presentazione alla tribù dei primogeniti, la danza propiziatoria della caccia, quando si percuotevano le vittime con rami di fico. Questa antica liturgia misterica, che celebrava un dio, era sempre accompagnata dalla musica, che riproponeva in terra agli iniziati le armonie celesti e che costituì sempre l'essenza dei rituali.

I canti dei misteri Eleusini, riecheggiati da Johann Simon Mayr nell'opera omonima (data alla Scala nel 1802), si ripetevano ogni anno allo stesso modo, seguendo un'abitudine ancestrale, ed erano detti appunto, secondo la maniera antica, “nomoi”. C'era il nomos relativo alle messi (intonato nei misteri di Demetra) o ai nuovi nati, oppure quello “cradies”, cioè il nomos del fico.

Nella accezione più ampia “nomos” significa “legge”, “modello” e in particolare definisce la composizione musicale antica, che è legge universale, perché ripropone il modello immutabile dell'armonia celeste.

Le testimonianze letterarie dei nomoi cominciano da Esiodo, che ha trattato, non a caso e approfonditamente, della cosmogonia e della nascita degli dei.
Hanno quel nome perché gli antichi, prima di conoscere la scrittura, cantavano le leggi (cioè i nomoi, norme immutabili ed universali) per non dimenticarle. Così facevano ad esempio gli agatirsi, popolo della Tracia (Pseudo Aristotele, Problema 28). Il termine “nomos” definì sempre nel suo complesso il testo letterario, la musica che l'accompagnava e i movimenti delle coreografie.

La musica serviva a ricordare meglio le parole, e viceversa le parole suggerivano e facilitavano le linee della melodia, come accadrà di frequente nei tropi medioevali, là dove l'aggiunta di sillabe ai melismi serve a farli meglio ricordare. Notizie dei nomoi si trovano ancora nei poemi omerici.
Nell'Iliade assistiamo al canto di Achille, che ricorda divinità e imprese eroiche. Ritiratosi nell'amara solitudine, egli ripropone sulla cetra le armonie celesti e rappresenta uno o l'altro dio secondo rigide combinazioni sonore.

La musica si sottrae al giudizio critico-estetico come noi l'intendiamo. Il ricordo delle gesta assume altrettanta importanza quanto la melodia e il ritmo. L'attenzione è rivolta in misura uguale ai suoni, ai gesti e alla parola.

Tutto è musica.

Nell'Odissea sono ancora gli aedi a tenere alto il prestigio del canto intessendo le lodi per le epiche gesta. Questi cantori erano chiamati a corte per rendere un servizio religioso, di cultura misterica, e non per divertire.

L'antico nomos entrò nella storia per merito del musicista, che prima abbiamo definito "padre della musica greca", quel Terpandro di Antissa, venuto dall'isola di Lesbo. Questo celebre iniziato visse nel VII secolo a. C.
Fu lui il primo autore a lasciare un segno tangibile (cioè documentato) nell'antica musica greca e ad aver composto alcuni nomoi: l'eolio, il beozio, il cepione, l'acuto, il trocheo, il terpandreo, il tetraedio e forse l'orthios.

Nella letteratura greca si incontrano spesso questi termini, ad esempio il nomos orthios, citato da Eschilo nei Persiani (v. 389) e nell'Agamennone (v. 1153).
Il nomos eolio e quello beozio suggeriscono col loro nome l'origine; quello terpandreo l'isola di Lesbo, dove era nato Terpandro, e il mondo colonizzato dagli eoli. Tra i nomoi di Terpandro mancherebbe il dorico che poi la tradizione gli ha attribuito e che Terpandro avrebbe dedicato a Zeus. Ma il dorico venne presto sostituito dal trocheo, che sottintende una danza anch'essa dorica, eseguita in cerchio, da “troches” che significa appunto “ruota”.

I nomoi di Terpandro si eseguivano con l'accompagnamento della cetra ed erano divisi in sette sezioni: arena (canto iniziale), metarcha (in responsione ritmica con l'arena), katatropa (transizione), metakatatropa (in responsione ritmica con la katatropa) omphalos (ombelico, la parte centrale), sfraghis (sigillo), epilogos (la conclusione). Notevole in particolare era la sesta parte, il “sigillo”, nel quale il poeta rivelava il proprio nome e parlava della sua opera, di cui tutti potevano fruire, ma che non tutti, allo stesso modo, potevano comprendere.

Nell'antichità il nomos costituito da parole e insieme da musica era letto, come acutamente osserva Gabriele Rossetti, secondo linguaggi anfibologici, cioè dai molteplici significati; dal VII secolo assunse un significato musicale apparentemente esclusivo per merito di Alcmane.
Egli affermò di aver composto della musica imitando lo squittire delle pernici e di conoscere i nomoi di tutti gli uccelli. Il riferimento al canto degli uccelli ci conferma l'immutabilità della melodia nomica e il valore simbolico dei canti, che celano altri contenuti sotto l'aspetto naturalistico e profano. Il ditirambo è una delle composizioni musicali nomiche strettamente legate ai misteri di Dioniso.

Erodoto attribuisce il termine “ditirambo” ad Arìone di Metimna: “primo degli uomini a nostra conoscenza compose e diede il nome al ditirambo, che egli allestì a Corinto”. Arìone di Metimna, vissuto anch'egli alla fine del settimo secolo, fu un grande citareda e si meritò la fama di valente cantore. Quando dalla Sicilia decise di tornare in patria si imbarcò su una nave corinzia. I marinai si resero conto dei tesori che Arìone portava con se e pensarono di ucciderlo per impadronirsene.

Arìone, prima di morire, chiese solo di poter cantare. Si vestì come per compiere un rito e cominciò il canto. I marinai, ammirati, l'ascoltarono e alla fine fu Arìone stesso a gettarsi in mare. Ma nei pressi della nave, attratto dal canto di Arìone, un delfino si avvicinò e lo condusse a riva. Giunto a Corinto Arìone raccontò tutto al tiranno Periandro, il quale poco dopo vide arrivare i marinai. Costoro raccontarono che Arìone non si era imbarcato, ma furono sconfessati e puniti (Erodoto, Storie, I, 23).

Già nel settimo secolo a. C. Archiloco, poeta e musicista, aveva composto un ditirambo. Si dice che costui avesse recitato i suoi poemi con un accompagnamento musicale continuo, alternando versi cantati a quelli parlati (Pseudo Plutarco, cap.28).

Archiloco per primo pose l'accompagnamento dei canti all'acuto e non più all'unisono con la melodia. In un suo frammento si legge: “Folgorata la mente nel vino, io so intonare il bel canto di Dioniso signore: il ditirambo”.
Questa nuova musica ha radice nel mondo cultuale, ove il vino evoca un aspetto mitico e rappresenta il sangue del dio Dioniso, che fu esperto di vita e di morte.
Secondo la leggenda, che e alla base dei misteri di Dioniso, Zeus s'era innamorato della bella Semele. Sua moglie, rosa dalla gelosia, si trasformò nella vecchia nutrice della giovane e le insinuò il dubbio che il suo amante non fosse il primo degli dei. Semele, incontratasi con Zeus, chiese che egli manifestasse la sua divinità ed egli acconsenti, ma la donna rimase incenerita. Da Semele morente Zeus trasse Dioniso, che fu custodito nella coscia del dio.

In un secondo mito ditirambico, che ispirò la visione cristiana, Zeus ebbe un figlio. I Titani, invidiosi di Zeus, lo trassero in disparte promettendogli le mele d'oro del giardino delle Esperidi e poi l'uccisero. Fecero a pezzi il corpo e lo deposero in un recipiente. Il padre Zeus, disperato, folgorò i Titani. Trovato per terra il cuore del bambino che ancora palpitava, da esso resuscitò un nuovo figlio, Dioniso: morto e risorto.
La terra, impregnata del sangue germinò una vite e la pianticella produsse l'uva.
Attraverso il vino il sangue dell'innocente si moltiplicava all'infinito.
Dalle ceneri dei Titani venne forgiato l'uomo, nato dal peccato, che partecipava della loro colpa, ma poteva essere redento dall'elemento dionisiaco.

In questa natura contraddittoria è il dramma umano.

Solo attraverso i misteri e le cerimonie religiose, accompagnati da musica nomica, parole e ritualità, che facevano un tutt'uno significante, ogni uomo sarebbe riuscito a liberare lo spirito dall'elemento terreno.

Molte erano le occasioni di cantare e celebrare Dioniso, che e signore della natura. Egli rinasceva in primavera dopo i rigori dell'inverno. Archiloco, nel verbo “folgorare”, riferito al vino, richiama alla mente il fulmine di Zeus sopra Semele e contro i Titani.

Il vino folgora l'artista e lo ispira: Orazio dirà che non esistono versi che possano vivere a lungo e piacere se sono scritti da un poeta che beve acqua! Altrimenti non potremmo spiegarci il Bacco latino equivalente a Dioniso e alle baccanti.
I ditirambografi e i misteri di Dioniso contribuirono in modo sensibile alla rivoluzione musicale in Grecia, per la particolarità della materia e la frenetica ebbrezza che la caratterizzava.
Essi riuscirono a sovvertire le strutture della musica tradizionale.

Come il madrigale drammatico fu il presupposto per il melodramma, così il ditirambo condusse alla tragedia.
Le prime composizioni hanno sempre per oggetto le sofferenze di Dioniso: sono un rito e insieme uno spettacolo, che riesce a coinvolgere tutti: somigliano alle Passioni o, per significato ultimo, alle Ultime sette parole di Cristo sulla croce, prima della resurrezione, musicate in epoca moderna ad esempio da Haydn o da Zingarelli
.

L'ara o l'altare rappresentavano il luogo ove Dioniso fu sacrificato. Quel simbolo si ridusse poi a una colonnina, detta “zumele”, che si trova anche nella tragedia.
Attorno all'ara cantano e danzano i satiri coperti di pelli di capra, ridicoli per significato essoterico, profondi per senso esoterico.
In mezzo al coro stava il corifeo, rappresentante della collettività, che raccontava i momenti salienti della vita del nume. Egli svolgeva la funzione narrativa, come avverrà con il Testo o lo Storico nell'oratorio del 1600: non a caso il Seicento volle ripristinare l'antica tradizione greca. L'opera lirica ebbe, come quella greca, funzione educativa, fu un mezzo di comunicazione privilegiato ed ebbe funzione politica, sociale, religiosa.

Il gruppo dei satiri formava il “choros” ciclico, che aveva infatti una forma circolare e si muoveva con particolari evoluzioni cosmologiche: da sinistra a destra e da destra a sinistra. Le danze avevano ritmo animato, ad esempio la sicinnide, tipica dei satiri, oppure la tyrhasia, esaltante, sfrenata e orgiastica.
L'armonia che meglio si addiceva alle esecuzione dei ditirambi era quella frigia, osteggiata più tardi per i caratteri dissoluti. Un auleta si cimentava tra i brani corali in assoli virtuosistici, ma nei tempi più antichi i primi ditirambografi usavano anche altri strumenti, ad eccezione della lira e della cetra, perché erano sacre ad Apollo.

L'aulos divenne invece lo strumento di Dioniso, dio dell'ebbrezza e con voce mordente e graffiante (assomiglia a un oboe) era l'accompagnamento più idoneo a rappresentare i dolori del dio. Successivamente si arricchì di una seconda canna, spesso rappresentata nelle pitture vascolari della Grecia classica e del mondo etrusco. Lo strumento era fatto in origine da un solo tubo di legno con alcuni fori, ma era grezzo e difficile da intonare, soprattutto quando accompagnava la voce. L'auleta non poteva garantire una perfetta uniformità e consonanza tra l'emissione della voce e il suono dello strumento. L'aulos, non essendo allineato con la voce, se ne staccò e cominciò a seguirla con melodie diverse.

“Quelli che accompagnano il canto con l'aulos, anche se non suonano tutte le note del canto, se concludono sul medesimo accordo, rallegrano con questa chiusa più di quanto non infastidiscano con le eterofonie” (Pseudo Aristotele, Problema 39b).
L'aulos era definito dagli antichi scrittori “polifonos”, “poichilos” oppure “polichordos”, cioè “eterofono” (non "polifonico"), “vario” o addirittura “multicorde”, riferendo allo strumento a fiato un termine che è proprio della cetra. Stesicoro, nel VII secolo a. C. parla esplicitamente di auloi policordi. L'aulos si poteva suonare con o senza imboccatura e con i fori parzialmente otturati per le sfumature quartitonali e aveva maggiori possibilità sonore della cetra.

I citaristi, accortisi che lo strumento nazionale, sacro ad Apollo, non poteva andare oltre le intonazioni prefissate, tentarono di imitare l'aulos. “Prima non era permesso usare arbitrariamente una melodia al posto di un'altra. Poi sorsero alcuni poeti, provvisti senza dubbio di talento, ma che non capivano nulla di leggi e di regole, i quali, presi da bacchica frenesia e guidati più del giusto dal puro piacere, mescolando threni a inni e ditirambi e imitando l'aulodia nella citarodia, rovinarono la musica, non per cattiva volontà, ma per ignoranza” (Platone, Leggi, III, 700).

Così per gradi venne meno la tradizione misterica, mascherata gradualmente, alcuni secoli dopo, dalla simbologia cristiana.

Lisandro di Sicione, ancora nel VI secolo a. C. , aveva dato alla povertà sonora della cetra la possibilità di realizzare suoni diversi, sfiorando a metà le corde in vibrazione per produrre i suoni armonici. La cetra poteva essere suonata con le dita, come indica il verbo “psallein” oppure con il plettro, e allora si usava il verbo  “krouein”.
Accompagnando i riti, il citarista, con altro artificio, poteva imitare le eterofonie dell'aulos, pizzicando all'acuto le corde e realizzando al grave, col plettro, la melodia nomica.
Furono contemperate in tale modo le esigenze di novità e di difesa della tradizione.

La polifonia per noi è una composizione a più voci; per i greci volle dire l'impiego di molti suoni e significò innanzi tutto un modo speciale di accompagnare, che e quello dell'aulos.
Dalla polifonia si giunse alla eterofonia. La ricchezza dei suoni che lo strumento realizzava all'acuto e i brani eterofoni che si concludevano all'unisono, alla quinta o all'ottava costituirono un nuovo linguaggio.

Contro queste novità, che si temeva dovessero di necessità degenerare, si schierarono i rigoristi, primo fra tutti Platone:
“Il maestro di lira e il suo allievo - secondo lui - devono usare lo strumento in modo che il canto sia riprodotto nota per nota. Non è opportuno esercitare i fanciulli all'eterofonia e alle variazioni sulla lira. Con l'eterofonia si cerca un contrasto sensibile tra l'accompagnamento e la melodia, opponendo il lento al veloce, l'acuto al grave” (Platone, Leggi, VIII, 812).

Sul finire del sesto secolo il ditirambo dei misteri dionisiaci si rinnovò, soprattutto per merito di Laso d'Ermione, che la tradizione ha considerato maestro di Pindaro.
Il genere perse con gli anni la sfrenatezza originaria e scomparvero per gradi gli strumenti orgiastici. Pur essendo una composizione e uno spettacolo rivolti a Dioniso, spesso riguardò altri soggetti. Durante uno spettacolo ditirambico Ateneo dice che uno spettatore si alzò e chiese meravigliato: “Dov'è Dioniso?”.

Mentre a Sparta l'aristocrazia celebrava Apollo nelle feste Carnee, ad Atene invece si onorava Dioniso. Per un intellettuale come Laso d'Ermione, venuto dalla provincia, Atene sembrò il luogo più adatto per introdurre novità musicali. Diversamente dal contemporaneo Simonide, che era l'erede di un'antica tradizione, Laso trascorse la maggior parte dei suoi anni in questa città e organizzò per essa le composizioni ditirambiche, che erano uno spettacolo sempre alla maniera antica, secondo lo spirito nomico, cioè religioso e insieme cittadino.

Tragediografi e ditirambografi contribuirono all'educazione musicale dei cittadini (come gli operisti dal Seicento in poi).
Il genere assunse un carattere più spettacolare, in cui la musica rafforzava il proprio ruolo, tentando una sintesi tra le tradizioni elleniche e orientali.
La spinta iniziale di questa evoluzione fu impressa da Laso d'Ermione, ma la scomparsa delle sue opere e la scarsezza delle testimonianze impediscono di conoscere meglio la sua personalità e il suo tempo, durante il quale Atene si avviava ad essere la capitale spirituale del mondo antico.


Note

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Bibliografia italiana minima

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Sitografia ragionata

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Luca Bianchini - contributo originale - novembre 2006
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